L’arte della felicità: un film da vedere e regalare

Sergio guida un taxi bianco in una Napoli che trabocca mestizia e immondizia. Sotto una pioggia battente conduce i suoi clienti per la città cercando di elaborare la morte di suo fratello, partito dieci anni prima per il Tibet e mai più tornato. Una cantante pop, un riciclatore di frammenti di vita, uno speaker radiofonico, un vecchio zio, si avvicendano sui suoi sedili recando, ciascuno a suo modo, una traccia del fratello amato. Ostinato a non scendere più e a perdersi dentro una corsa senza fine, Sergio è travolto dai ricordi e dalla musica prodotta in coppia con Alfredo, che nel buddismo e nei suoi fondamenti aveva trovato la forza di affrontare la malattia. Quelle note che credeva sepolte e deposte per sempre, tornano prepotenti e chiedono una cassa armonica in cui risuonare ed esprimere il suo essere sonoro. Mettendo mano al pianoforte, Sergio sentirà di nuovo Alfredo, accordando il passato col presente e realizzandosi nel sentimento.
Non è semplice ricondurre la narrazione esplosa dei fumetti alla narrazione lineare e consequenziale del cinema. Nei fumetti ci sono innumerevoli frammenti di racconto, dettagli, deliri, flussi di coscienza, monologhi interiori, salti temporali, scarti prospettici che Alessandro Rak, fumettista napoletano, prova a gestire e a organizzare nel suo primo lungometraggio di animazione intorno alla ‘trasformazione’ e al movimento dell’ereditare. Perché il protagonista di Rak vive un ripiegamento nostalgico dentro un’automobile e una città piena di rifiuti, dove non si respira più e la bellezza è intossicata. Chiuso in un taxi ingombro di fotografie e mozziconi di sigarette, Sergio gira a vuoto, galleggiando tra visioni lisergiche e sogni interrotti. La sua corsa e il racconto della sua corsa si rompono e si frantumano per l’irruzione di ripetuti flashback, in cui il protagonista ritorna alle ‘immagini’ del fratello trapassato nel tentativo di ricordare e in un eccesso di alienazione. La perfezione della musica prodotta insieme si è incrinata e tutto intorno a Sergio adesso appare sbeccato, rotto, rigato. Non è facile convivere con la morte. Non è facile accettarla, capirla, conferirle un senso. L’arte della felicità tra le altre cose, forse troppe, racconta questa difficoltà, questo disagio, questo impasse. Lo fa con grande sensibilità e rispetto perdendosi però in un magma visionario e logorroico che non mette a fuoco la deriva esistenziale del protagonista, giocando di eccessi e ridondanze. Deriva che trova comunque il passo e un movimento in avanti di ‘riconquista’ emancipandosi dalla ruminazione incessante e dall’appassimento depressivo.
Alfredo, alla maniera di Godot, è il nome di un’assenza che Sergio e Alessandro Rak riempiono con la forza armonica e melodica di Antonio Fresa e Luigi Scialdone. Musica visiva che dà indicazione ai sentimenti, che stempera fino a dissolverla la paralisi melanconica del protagonista, realizzando il ‘movimento’ singolare di riappropriazione del proprio presente e della propria eredità. Di nuovo accordato con la vita, Sergio rompe l’indugio e riprende a fluire nel tempo. Come il cinema, come la musica.

Grazie a Roberto Saviano per la dritta!

#senso-della-vita +partnerdigitale +miglioramento +esperienzevegetariane

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